“Perché il bambino cuoce nella polenta?” di Aglaja Veteranyi

Ho passato una fase nella quale pensavo che la vita nei circhi dovesse essere bellissima. Avevo negli occhi le immagini edulcorate dei film, pensavo che vi regnassero bellezza e libertà (mi riferisco, ovviamente, esclusivamente a quelli senza animali). In seguito ho capito quanto dovesse essere dura, quanta fatica, miseria, asperità comportasse.

La scrittrice, Aglaja Veteranyi, racconta la sua esperienza nei circhi, da tenera bambina al seguito dei genitori, della sorellastra e della zia, e l’adolescenza come stella pudica dei peep show. Lo fa in maniera onirica, con uno sguardo incantato che sorvola sulle brutture del mondo, che costruisce meraviglie laddove l’occhio nudo vedrebbe rapporti prevaricatori, tossici, instabilità emotive. La protagonista è una bambina figlia di una madre altrettanto bambina, alla quale è legata da un rapporto fortissimo e straziante, che si esibisce appendendosi per i capelli. Ogni sera la piccola teme che la madre possa farsi male e non tornare mai più, e la sorellastra, per distrarla e consolarla, le racconta storie orribili di bambini cotti nella polenta, piccoli racconti dell’orrore il cui scopo è esorcizzare la realtà, fare male per finta per non pensare ai dolori veri.

Aglaja Veterani è morta quarantenne, suicida, e in qualche modo nel libro ci racconta nell’unico modo possibile una sofferenza interiore che non è esprimibile lucidamente, ma solo per frasi che formano piccoli memorabili paragrafi, luminose pillole di dolcezza e tristezza, di leggerissima ironia che si fa carico di tutto il peso del mondo, della sua incomprensibile gravità.

Il suo libro è indimenticabile, vivace come l’infanzia e amaro come la vita. Finisce quasi in sospensione, quando ormai l’autrice ci ha completamente aperto il suo cuore e non è rimasto più nulla da dire. Al lettore adulto non potrà sfuggire, nonostante la poesia di una voce narrante giovanissima e ingenua, l’asperità del mondo nel quale si muove, la crudeltà che lo abita, le difficoltà di chi è costretto a vivere da straniero perché fuggito dalla dittatura nel proprio paese, le dinamiche malsane di una coppia di persone immature e non così buone, e allo stesso tempo non potrà non rimanere incantato dalla capacità caparbia della protagonista di ammantare tutto di una poetica bellezza che non è naïf, ma è una forma di saggezza che non ci era mai stata raccontata e che dovremmo, invece, imparare a padroneggiare. Certo, al mondo non si può sfuggire, e ci sono punti di non ritorno, esperienze che lacerano completamente la vita interiore delle persone, ma, fino a quel punto, e sperando che quel momento non arrivi mai, possiamo combattere le storture della vita con la formula segreta della protagonista, con il suo sguardo che vede tutto e tutto trasforma in magia.

Conosco il mio paese solo dall’odore. Profuma come la cucina di mia madre.

Mio padre dice che dell’odore del proprio paese ci si ricorda in qualsiasi posto, ma lo si riconosce soltanto quando si è lontani.

L’ESTERO NON CI CAMBIA. IN TUTTI I PAESI MANGIAMO CON LA BOCCA.

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