Quella volta che mi hanno chiesto di parlare di un ricordo personale e del ricordo storico

E io risposi così:

Quando ero bambina e ragazzina adoravo le cene con i miei genitori e i loro amici. Si mangiavano piatti di tutto il
mondo, e a fine cena tiravano fuori la chitarra per cantare le canzoni di lotta. Da bambina avevo una cotta per Che Guevara, perciò insistevo sempre perché mi cantassero la canzone a lui dedicata. E impazzivo per i ritmi di “El pueblo
unido”. Poracci, i testi in spagnolo erano un gran casino. Un’amica di mia mamma mi ha poi dirottata sul
subcomandante Marcos, dicendomi che lui almeno era ancora vivo. Non era l’unico vantaggio dello zapatista: con quel
volto perennemente coperto, mi permetteva di immaginarmelo come volevo (caratteristica, questa, che accomuna tutte
le mie grandi sbandate sentimentali). Per loro aveva anche un altro vantaggio: un gruppo italiano, i Gang, aveva scritto
una canzone su di lui.
Spesso (ma non sempre!) queste cene si svolgevano a casa di questa amica di mia mamma: era una casa piena di
oggetti, e io, che ero l’unica bambina, amavo curiosare. C’era anche una camera tutta rosa, piena di oggetti
rigorosamente rosa, nella quale aveva ospitato per un certo periodo un ragazzo senegalese, aiutandolo a trovare un
lavoro serio (da venditore in strada ad aiuto cuoco a Cervinia). Lui è stato l’inconsapevole musa ispiratrice della
maggior parte dei miei temi alle elementari: mi aveva molto colpita che con i soldi guadagnati avesse fatto costruire il
primo pozzo al suo villaggio, ma anche che avesse una moglie (poi negli anni sono diventate due) che non voleva
portare in Italia, e che non fosse riuscito a tornare per mesi nel suo paese, nonostante la nascita del suo
secondogenito.
A un certo punto ho smesso di andarci. L’adolescenza è così: ci si ribella anche ai ribelli.
Per quanto riguarda il ricordo storico, la memoria collettiva, per me sono importantissimi. Del resto è ormai noto che
siano delicati, strumentalizzabili, manipolabili.
Nella vita, una volta sola mi è capitato di avere la forte e costante sensazione di partecipare a qualcosa che sarebbe
entrato nella storia (non succede spesso, a chi nasce nelle remote provincie). E’ stato durante l’onda anomala.
Inizialmente, nonostante fosse un movimento imponente, la stampa ci snobbava. Proprio in virtù di questo avevo la
sensazione che avremmo lasciato il segno. In seguito stampa e televisione hanno ceduto, hanno scritto di noi, e
Micromega ci ha dedicato un interno numero. In quel periodo ero prossima alla laurea (mi mancava un esame), stavo
leggendo la biografia di Soledad Rosas (avevo la stessa età di quando era morta, e la cosa mi aveva molto
impressionata), e stavo girando le prime scene di “Nel nome del male”. Ricordo che, per la serie Sky, mi avevano fatto
un calco del viso, per costruire il cadavere da buttare giù da un dirupo per una scena. Il silicone, asciugandosi, si
contrae, perciò si forma un livido sul naso. Lo stesso giorno c’erano stati degli scontri con la polizia, perciò, tornata in
Università, qualcuno mi aveva chiesto se mi avessero colpito in volto. Insomma, era un periodo carico di promesse, sia
a livello personale che collettivo. Non ne ha mantenuta praticamente nessuna.

Foto di Annalisa Gaeta

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